"La morte non è silenzio"
Ricordo di Ciro Coppola
Come per dire che al di la di questa vita "deve" esserci un'altra,
che un uomo "non può" sparire nel nulla, che la morte "non"
può essere silenzio,
ma "deve" avere qualche cosa da insegnare e da lasciare agli altri che
sopravvivono.
di Giuseppe Mazzella
(Da "Il settimanale d'Ischia", N° 23 del 18
ottobre 1978)
Sono grato - di
cuore - a Domenico Di Meglio per questa pagina interamente dedicata al Premio Nazionale di
Poesia "Ciro Coppola".
Posso dedicare alcune parole ad un giovane amico scomparso. Voglio farlo spogliandomi
della veste di cronista. Usando la prima persona nello scrivere che è contraria alla
norma che mi sono imposto. Il giornalista è un testimone di fatti. Non un protagonista.
Mi viene in mente l'espressione di Segal nel suo "Love Story": "Cosa si
può dire di una ragazza che muore a 24 anni? Che era carina, intelligente e che amava i
Beatles e me".
Cosa si può dire di un ragazzo che muore a 17 anni? Che era intelligente, educato,
studioso e che amava le cose belle del mondo e sua madre e suo padre.
Ciro Coppola ha vissuto "la sua estate eterna da 17 anni" - per usare i
versi di Furio Durando che ha vinto la prima edizione del premio a Lui dedicato - senza
avere il tempo di diventare un uomo adulto, di conoscere appieno le miserie ma anche la
ricchezza del mondo.
Qual è la riflessione e l'esempio di Ciro per quelli che lo hanno conosciuto, per me che
l'ho avuto giovane dirigente dell'Associazione "Pro Casamicciola"?
Alcuni mesi dopo la sua morte - avvenuta nell'ottobre del 1976 - dissi al padre Salvatore
che questo destino tragico di Ciro mi aveva insegnato due cose fondamentali. La prima è
che potevo morire in qualsiasi momento ed in ogni caso avrei vissuto 10 anni più di Ciro.
La seconda è che qualsiasi cosa mi fosse successo nella vita,
qualsiasi dolore avessi provato (e ne ho provati tanti) non sarebbe mai stato eguale al
dolore di un padre e di una padre che vedono senza vita il loro proprio univo figlio,
soltanto pochi minuti dopo averlo visto pieno di vita, di speranza nell'avvenire, di
futuro roseo.
Per questo motivo - sebbene indicato dagli amici della "Pro Casamicciola" - non
ebbi la forza di ricordare in Chiesa il nostro amico Ciro e di dargli a nome di tutti noi,
l'estremo saluto.
Qualsiasi parola avessi usato, non avrebbe mai potuto esprimere un doloro così forte e
dare un conforto ai suoi genitori. Era meglio il silenzio. Abbracciare Salvatore e non
parlare.
L'idea di un premio di Poesia dedicato a Ciro mi venne riflettendo sulla sua tomba nel
cimitero di Casamicciola.
Sulla lastra di marmo il padre Salvatore ha fatto apporre una sua frase: "La
morte non è silenzio".
Come per dire che al di la di questa vita "deve" esserci un'altra, che un uomo
"non può" sparire nel nulla, che la morte "non" può essere silenzio,
ma "deve" avere qualche cosa da insegnare e da lasciare agli altri che
sopravvivono.
E Ciro deve vivere. Vivere nel ricordo dei suoi genitori, dei suoi parenti, nel nostro
ricordo, nel ricordo di tutti gli studenti italiani.
Domenica scorsa, al termine della cerimonia di consegna del Premio, il padre Salvatore -
commosso e felice - mi ha detto: "Hai visto che avevo ragione. La morte non è
silenzio. Ciro questa sera è vivo e presente".
Vedere sorridere Salvatore e Giuseppina Coppola per me, per tutti i giovani soci della
"Pro Casamicciola" è stata la soddisfazione e la gioia più grande.
Ciro ci attende in un luogo dove tutti noi dobbiamo andare. Egli ci è andato prima. Non
ha visto tante cose perfide di questo mondo. La sua bontà e la sua storia ci hanno fatto
migliori.
Grazie, Ciro, tutti gli amici della "Pro Casamicciola" ti vogliono bene. Allora
come adesso e come domani.
Appunti
di Ciro Cenatiempo
(Da "Il settimanale d'Ischia", N° 23 del 18 ottobre 1978)
Domenica
sera, Complesso Calise Casamicciola. Uno scroscio di applausi. Zivelli ha appena finito di
leggere la poesia vincitrice con una efficace e personalissima interpretazione. Furio
Durando, l'autore, mi dice: "E' proprio come la volevo io".
Era raggiante: notavo la sua espressione con partecipazione di coetaneo, non certo con
quel particolare sadismo che spinge Luca Goldoni a fissare la gente appena si accendono le
luci in sala dopo il fil, per vedere come si ricompongono, improvvisamente, con ancora gli
occhi lucidi.
In effetti quel marchio Shakesperiano dato da Zivelli, o almeno una impronta d'avanguardia
(a me ricordava la grinta del Teatro di Carmelo Bene, ad altri, provocava reminiscenza
Mastersiane), riproducono proprio l'effetto che danno (nella relativa misura) i 13 versi
della poesia "Spiritual". E' difficile dimenticare perciò l'ottima
"lettura" di Zivelli, riuscita perfettamente a cogliere pause e sospensioni
riflessive dell'autore. E "Spiritual" stilisticamente verte, in maniera
essenziale, sulla sapiente disposizione die pensieri, che si innalzano in un crescendo
culminante nella invocazione finale al "Signore", coordinati in un unico
periodo.
Ma è opportuno sottolineare la straordinaria sensibilità che Furio esprime nel
manifestare quella che il Presidente della Giuria del Premio, prof. Edoardo Malagoli,
chiama "la sorpresa, ricca di tensione, del trovarsi vivi, e l'ansia quasi ribelle
del sapere il perché
"; e non solo questo. L'andamento ad "onda"
della poesia - evidente il "basso" "l'alto" e po di nuovo il
"basso" in queste tre espressioni: "Mi fermo
"
"un
niente più niente del niente"
"Signore"
- ne è la chiave
interpretativa. Infatti "mi fermo" sugella il particolare momento in cui nasce
la poesia; questa pausa interiore che blocca ogni attività materiale nello immergere la
personalità di un uomo in se stessa, è l'atto creativo di un messaggio vitale. Un
messaggio che supera la contingenza personale e che, pur rimanendo in prima persona, nel
secondo momento di "tensione e di ansia", si raddolcisce nella sottintesa
considerazione che quella estate di diciassette anni", così' come quel "momento
di rabbia" (il disinganno) e quello "esitare di fiamma" (l'illusione che si
riaffaccia dietro le porte della razionalità) e infine il "Signore"," non
sono solamente suoi, propri, ma fanno parte "comunemente" delle vita. La
sorpresa e la tensione fuggono via, quindi, dinanzi alla constatazione della necessitò di
una sicurezza assoluta, rappresentata dal "Signore", per la continua erosione
provocata dalla dialettica vita-morte.
Alla fine Furio sembra quasi vuole dire di essersi pentito del suo attimo di indeciso
ardore che lo ha portato all'affannosa ricerca di una soluzione impossibile, e
nell'invocazione al Signore c'è il bisogno di comprensione per una dramma che coinvolge
tutta l'umanità. Qui, concludendo una lirica tra l'ermetico ed il discorsivo, ma
certamente di austerità religiosa, si annunzia il processo di maturazione del giovane
poeta e dell'uomo, apparso già all'inizio nell'incidentale "per un momento",
lampo di programma razionale spentosi in seguito a quel che è, in fondo, phatos, nato e
cresciuto per incanto dalla piante "sensibilità".
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